Nella “Casa Madre” della buona pizza: così può crescere un brand d’eccellenza

«Berberè è una catena di pizzerie, la nostra ambizione è crescere come hanno fatto in passato i brand artigiani della moda italiana come Missoni e Armani. Crediamo che ci sia l’occasione storica per le aziende del food italiano di crescere diventando complesse senza perdere la qualità». A parlare sono i fratelli Aloe, Salvatore e Matteo, calabresi con lauree in Economia e finanza il primo ed Economia e marketing il secondo, fondatori e, ancora oggi, soci di maggioranza del gruppo Berberè. Hanno appena inaugurato a Bologna, dove tutto è cominciato, la loro quarta pizzeria in città. Un’apertura che, però, differisce dalle altre perché la palazzina di via Murri 71 (ex sede di Fourghetti e in tempi più lontani una locanda dove soggiornò anche Goethe), interamente acquisita, diventerà il centro nevralgico dell’attività con tanto di foresteria e di centrale operativa del brand. Di fatto la Casa Madre, com’è stata battezzata.

[[ima2]]Nei piani di sviluppo di Berberè, che dal 2023 è partecipata dal fondo di private equity Finance for Food One di Hyle Capital («Un ingresso di minoranza, poco meno del 40%, che non ha cambiato le nostre strategie ma ci ha dato tranquillità»), c’è l’espansione a Londra dove attualmente le pizzerie sono due, a Clapham e Kentish Town, e quella nella provincia italiana appena penetrata con le aperture di Modena e Rimini datate 2023. E non c’è il franchising, mai preso in considerazione fino a questo momento. «La nostra è una crescita organica: apriamo nuovi locali, ognuno con una propria identità in luoghi appositamente scelti dei quali manteniamo l’identità scoprendone il passato (leggasi, per esempio, la Manifattura Tabacchi di Firenze, ndr)», raccontano.

Berberè oggi conta 348 dipendenti di 47 diverse nazionalità. «Ci adoperiamo per la formazione e la crescita interna del personale, che adesso avrà il suo quartier generale a Casa Madre, dove sono stati allestiti ampi spazi per la didattica teorica e pratica». Tanti gli incentivi, una carta dei valori (inclusività, fiducia, crescita, coerenza e qualità) e bonus – 300mila euro nel 2022 – riservati ai membri dello staff che si distinguono, valutati da una società esterna che effettua quattro visite segrete al mese

Non ci sono segreti nella loro crescita fatta di “persone gentili che servono pizze buonissime in posti bellissimi” (motto adottato sin dall’apertura). Quello del personale, che oggi conta 348 dipendenti di 47 diverse nazionalità, è uno dei fiori all’occhiello. «Ci adoperiamo per la formazione e la crescita interna del personale, che adesso avrà il suo quartier generale a Casa Madre, dove sono stati allestiti ampi spazi per la didattica teorica e pratica», raccontano. A fare da incentivo ci sono «la carta dei valori consegnata con il welcome kit in cui vengono illustrati i nostri valori: inclusività, fiducia, crescita, coerenza e qualità». Non sono da sottovalutare i bonus (300 mila euro nel 2022) riservati ai membri dello staff che si distinguono: «Le valutazioni vengono fatte da una società esterna che effettua quattro visite segrete al mese in ogni locale, e i bonus vanno anche a chi fa solo qualche turno».  

[[ima3]]Difficile che i due Aloe quando, nel 2010, inaugurarono la prima pizzeria a Castel Maggiore (Bologna), avessero previsto che 14 anni dopo i locali sarebbero stati 21 disseminati tra 8 città italiane e a Londra, tutti gestiti direttamente, con un fatturato annuo di 25 milioni di euro. Non li aiutava nessuna tradizione di famiglia, né dimestichezza con il mondo food, eccezion fatta per la passione di Matteo che, dopo gli studi in Economia e marketing con tesi sulla cucina pop di Davide Oldani e sulla mancanza di managerialità nella cucina, aveva trovato lavoro nella storica trattoria felsinea Scacco Matto di Mario Ferrara. «L’idea dietro l’apertura del primo Berberè è stata una ricerca di mercato che certificava che le pizzerie a Bologna erano bruttine. Del resto, è storia che la prima pizzeria bolognese apriva nel 1954 quando New York ne contava già 5.000», ricorda Matteo incontrando i giornalisti in via Murri.

La diversità di Berberè, che da allora offre pizze con impasto solo a lievito madre, fu subito esplicitata nel payoff dell’insegna che recitava “light pizza & food”. «Volevamo che il nostro essere diversi fosse subito chiaro: una pizza leggera e divisa in 8 spicchi. Una divisione che non era volontà di andare verso un concetto di pizza gourmet, ma una necessità funzionale di retail: scegliere una pizza diversa dalla Margherita è un atto di coraggio per il cliente standard delle pizzerie. Portare in tavola una pizza divisa in 8 è un invito alla condivisione e quindi a incoraggiare a ordinare almeno una pizza diversa dalla margherita. È stato un suggerimento che ha funzionato», sottolineano i due che da allora non si sono più fermati.

Da Castel Maggiore, passando per Identità Milano 2012 dove raccontano il loro modello, arrivano nel 2013 a Bologna, dove aprono la loro seconda pizzeria in società con Alce Nero. Nel 2014 sono tra i casi positivi citati da Bernardo Iovine a Report nella prima inchiesta sulla pizza italiana che denunciava la scarsa professionalità del settore. Alla crescita esponenziale del business di Berberè ha dato il suo inconsapevole contributo René Redzepi e il suo Noma dove Matteo Aloe fa uno stage sempre nel 2014. «Al Noma si sfornavano 2.000 pasti al giorno grazie a un’attenta preparazione. Capii che era possibile standardizzare i processi e che non era necessario che io e Salvatore fossimo fisicamente in pizzeria per avere un prodotto con la stessa qualità», sottolinea Matteo. Ad aprire definitivamente la strada allo sviluppo del brand, però, è Expo cui Berberè partecipò in collaborazione sempre con Alce Nero.

«Al Noma si sfornavano 2.000 pasti al giorno grazie a un’attenta preparazione. Capii che era possibile standardizzare i processi e che non era necessario che io e Salvatore fossimo fisicamente in pizzeria per avere un prodotto con la stessa qualità»

Oggi la pizza divisa in 8 spicchi, oltre che a Bologna, Londra, Modena e Rimini, si mangia a Torino dove la prima delle due pizzerie cittadine è ospitata nei locali di don Ciotti («Partecipiamo anche con una donazione su ogni singola pizza venduta»), Milano (5 sedi), Firenze, Verona e Roma. Ma non più a Sud. «Sarebbe bello aprire a Napoli nel regno della pizza, ma lo faremo quando saremo attrezzati. Per adesso non è nei nostri piani scendere oltre la Capitale», confessano. Anche aprire in Calabria, terra natìa di Salvatore e Matteo partiti dalla provincia di Vibo Valentia alla volta di Bologna, non è nei piani di sviluppo di Berberè. «Per adesso lì andiamo a fare le vacanze… Anche se don Ciotti – ci dice sottovoce Salvatore – ci ha detto che fin quando non apriremo da quelle parti, è come se non avessimo fatto niente».

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