La storia del Gianduiotto torinese: da ripiego a icona del gusto

Gianduiotti torinesi

Torino non è solo una città splendida per le sue piazze e i suoi palazzi regali, il Parco del Valentino e i tutti i ricchissimi musei. A colpire chi vi arriva, o forse dovremmo dire “a prendere per la gola”, sono innanzitutto i suoi piatti tipici, come tajarin, agnolotti, vitello tonnato e molto altro. Ma soprattutto, ci sono i dolci: il bonèt, i krumiri, l’opulento bicerin e, ovviamente, i gianduiotti, vero e proprio simbolo della tradizione piemontese. La loro forma inconfondibile e il sapore avvolgente li hanno resi negli anni un’icona della pasticceria italiana, amata da generazioni. Ma come è nato questo capolavoro dolciario? Scopriamo insieme la storia del gianduiotto torinese, nato come ripiego e diventato invece uno dei cioccolatini più esportati e apprezzati al mondo.

Storia del gianduiotto di Torino: la necessità, madre dell’invenzione

Gianduiotti torinesi
Luigi Bertello/shutterstock

Amiamo raccontare questo tipo di storie, perché ci costringono a fare un viaggio nel tempo e scoprire qualcosa che, magari, non conoscevamo. È così anche per il gianduiotto! Torniamo indietro al 21 novembre del 1806, quando Napoleone Bonaparte impose il cosiddetto Blocco Continentale, vietando l’importazione di prodotti britannici nei territori europei sotto il suo controllo, tra cui proprio il Piemonte, assediato dalle truppe francesi dal 1798. Tra le varie conseguenze, ci fu una drastica riduzione dell’approvvigionamento di cacao, rendendo questo prezioso ingrediente raro e costoso: un vero dramma, soprattutto considerando che la richiesta di cioccolato invece continuava a crescere. I maestri cioccolatieri torinesi, noti per la loro abilità e creatività, si trovarono di fronte a una sfida: come continuare a produrre cioccolato di alta qualità con meno cacao a disposizione?

La soluzione arrivò dalle colline piemontesi, ricche di noccioleti: in particolare, la varietà “Tonda Gentile delle Langhe” era rinomata per il suo sapore delicato e aromatico. L’idea vincente fu quella di tostare e macinare finemente queste nocciole, creando una pasta che, unita al cacao, avrebbe dato vita a un nuovo tipo di cioccolato: la famosa gianduia. Non solo questa intuizione permise di sopperire alla carenza di cacao, ma aggiunse una nota distintiva al prodotto finale, rendendolo unico e irresistibile. Bisogna fare una specifica, però: in quegli anni, il cacao in polvere non veniva utilizzato per creare cioccolatini, tavolette, praline e quant’altro, ma per realizzare delle bevande liquide, come la cioccolata calda o la bavareisa, una sorta di antenato del bicerin, molto richieste dall’aristocrazia torinese. 

La nascita del gianduiotto: un debutto in “maschera”

piattino con gianduiotti e nocciole, uno degli ingredienti di questi cioccolatini
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Fu l’invenzione di una macchina per la produzione industriale del cioccolato da parte di Giovanni Martino Bianchini a porre le basi per la nascita di questo celebre cioccolatino. Nel 1819, Bianchini ideò un macchinario innovativo che rivoluzionò la lavorazione del cacao, aprendo la strada a nuove possibilità nel mondo della cioccolateria. L’anno successivo, nel 1820, affittò dalla vedova Watzembourn l’edificio dell’omonima conceria e lo adibì a fabbrica di cioccolato, installando la sua macchina (sappiamo che state già pensando a Willy Wonka e alla Fabbrica di cioccolato). E ora entra in gioco un altro personaggio che ha fatto la storia della cioccolata e, in particolare, del Gianduiotto: dopo il 1832, infatti, Paul Caffarel acquistò la fabbrica Watzembourn e convertì l’impianto in un moderno stabilimento, dove furono realizzati i primi cioccolatini a base di una miscela semplice ma raffinata: acqua, zucchero, cacao e vaniglia.

La svolta arrivò anni dopo, con l’ingresso di suo figlio Isidore, che si associò a Michele Prochet, un imprenditore dal grande spirito innovativo. Prochet ebbe l’intuizione di integrare nella ricetta una specialità del territorio piemontese: la Nocciola Tonda Gentile delle Langhe, finemente macinata. L’idea di utilizzare questa nocciola al posto di una parte del costoso cacao si rivelò geniale. Inizia così la produzione di un cioccolatino unico, caratterizzato dalla sua forma distintiva: quel “colpo di cucchiaio” con cui il morbido impasto viene tagliato a mano, un gesto semplice che conferisce al prodotto un tocco artigianale. Nel 1852, Caffarel e Prochet brevettarono la loro innovativa ricetta, dando il via alla produzione di quello che fu inizialmente chiamato “givu”, un nome ispirato al dialetto piemontese che significa “mozzicone di sigaro”, ma da interpretare con il significato di “bocconcino”, l’antenato del gianduiotto.

Dal Givù al Gianduiotto

Dopo alcuni anni di sperimentazione, nel 1865, la celebre azienda dolciaria torinese Caffarel presentò al pubblico un cioccolatino dalla forma a barchetta rovesciata, realizzato con la pasta gianduia. Per il lancio ufficiale si scelse un’occasione speciale: il Carnevale di Torino. La maschera tradizionale piemontese, Gianduja, simbolo di allegria e convivialità, divenne così il testimonial perfetto. Vestito con il suo tipico tricorno e la giacca rossa, Gianduja distribuì questi nuovi cioccolatini per le strade della città, conquistando immediatamente il cuore (e il palato) dei torinesi. Da quel momento il cioccolatino prese il nome di “gianduiotto”, in onore della maschera. E il resto, come si suol dire, è storia…

Un’innovazione avvolta in oro: il primo cioccolatino incartato

gianduiotti torinesi
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Non deve pesare meno di 12 grammi e deve essere composto da un terzo di nocciola “tonda gentile del Piemonte”, un terzo di cacao, un terzo di zucchero. Il gianduiotto non fu solo un prodotto innovativo nel gusto, ma anche nella presentazione: fu infatti il primo cioccolatino a essere incartato singolarmente. Caffarel decise di avvolgerlo in una sottile lamina dorata, conferendogli un aspetto elegante e prezioso, quasi come se fosse una pepita. Questa scelta preservava la freschezza e l’aroma del prodotto e lo rendeva anche più igienico e pratico da consumare. 

Come si fa il gianduiotto?

La produzione del gianduiotto segue due metodi principali, escluso quello a mano. Il primo, chiamato metodo a “estrusione”, è quello che più si avvicina alla lavorazione artigianale originale. In questo processo, l’impasto di cioccolato e nocciole viene colato direttamente su piastre senza l’uso di stampi, formando i cioccolatini con un gesto che ricorda, appunto, quel famoso “colpo di cucchiaio” manuale. Questo metodo richiede macchine progettate appositamente per replicare con precisione il processo tradizionale, preservando l’autenticità della forma e del sapore.

Il secondo metodo, noto come “concaggio”, è più industriale e prevede l’uso di stampi. Pur garantendo una maggiore standardizzazione nella forma e nella produzione, questo approccio utilizza una percentuale leggermente inferiore di cioccolato rispetto alla ricetta tradizionale. Il risultato è comunque un prodotto delizioso, pensato però per rispondere alle esigenze di una produzione su larga scala.

Come abbiamo visto, la storia del gianduiotto è un affascinante intreccio di necessità storiche, creatività artigianale e passione per la qualità. Quindi, la prossima volta che scarterai un gianduiotto, prenditi un momento per apprezzare il viaggio che ha compiuto per arrivare fino a te!

 

Immagine in evidenza di: Luigi Bertello/shutterstock

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