Viaggio nel cuore della cultura gastronomica indiana

Siamo nella culla natale del sommo poeta, nella città del David e della cupola del Brunelleschi, eppure, nella sala del Winter Garden dell’Hotel St. Regis di Firenze, parte del gruppo Marriott Bonvoy, i nostri occhi viaggiano a una velocità impressionante, i corpi si lasciano assorbire da un vortice di colori e musiche esotiche, atterrando nel cuore del subcontinente asiatico, nel meraviglioso mondo della cultura indiana.

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Per il secondo anno di fila, infatti, l’hotel vive per un’intera settimana un vero e proprio festival, A Taste of India Celebration, con iniziative di ogni sorta ispirate a questo affascinante Paese: qualche esempio? Il trattamento spa Pinda, a base di tamponi caldi, erbe e oli essenziali, o il rito dello Sticky tea, un blend di di tè nero (Assam e Darjeeling), origine India, aromatizzato alle spezie e alla rosa, il cui effetto “appiccicoso” si ottiene dall’uso del miele in preparazione (o nel nostro caso, dello zucchero di cocco caramellato), da bere con o senza latte a seconda del proprio gusto.

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Ma soprattutto l’evento è l’occasione per ritrovare in una cornice così suggestiva quale è il St. Regis, la creatività di Ritu Dalmia, chef del ristorante indiano Cittamani a Milano, una vera star della scena gastronomica internazionale (anche perché chef Dalmia, nel resto del mondo diventa fiera ambasciatrice della cucina italiana, spalleggiata dalla socia campana, Viviana Varese).

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Per noi, invece, il festival è una preziosa opportunità per conoscere più da vicino questa cultura, per intravedere oltre al piatto storie da raccogliere e poi raccontare, questa volta non legate a una singola realtà, o a un solo cuoco, ma a un intero popolo e a quella trama sublime di costumi che lo rende tale. Stiamo parlando di quel popolo che “non sa dire di no”, eppure nonostante i suoi molti “sì”, riesce a veicolare il vero senso di una risposta, ricorrendo, per esempio, a tempi molto dilatati; di una terra che, esattamente come il nostro Buon Paese, vive di tradizioni strettamente legate al territorio, dunque alle regioni, codificando una cultura gastronomica (e non) molto identitaria, con un sud decisamente più elegante in termini di gusto rispetto al nord, la cui cucina esprime maggiore complessità, potenza.

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Di certo non stiamo parlando della popolazione genitrice del chicken tikka masala che, invece, è un’invenzione degli chef indiani o bengalesi radicati in Gran Bretagna e pensata appositamente per rimanere in linea con il gusto locale e con la relativa soglia di tolleranza del piccante, decisamente più bassa rispetto al popolo indiano. Ma occorre immediatamente porre un distinguo tra speziato e piccante – spicy e hot – quest’ultimo inteso come percezione sensoriale di calore, mentre nel primo caso ci riferiamo a una mescolanza sempre ben equilibrata di più e più spezie, miscelate in maniera unica, seguendo ciascuno la propria ricetta di famiglia. In linea di massima, ciascun piatto è dotato di un elemento più “acceso” dell’altro, ma a quello corrisponde una controparte che interviene gradualmente ed estingue almeno parzialmente il tratto piccante, lasciando emergere via via tutti i sapori.

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Pensiamo al Thali e al suo elemento riequilibrante, ossia una raita di cetrioli: molto simile al tzatziki greco, è una salsa a base di yogurt, cetrioli freschi, erbe e spezie, da lasciare come ultimo assaggio. Ora, quando citiamo il thali, tradotto “piatto”, ci riferiamo a una tipica preparazione pensata per ogni momento della giornata, dalla colazione alla cena, disponibile sia in versione vegetariana (con una portata principale a base di patate, per esempio) che tradizionale (quindi con pollo, pesce, o pollo e crostacei insieme); poi, tutto intorno, una sequenza di piccoli assaggi – tra i più quotati (e amati da chef Ritu, selezionandoli per il suo menu al Winter Garden) il dhal giallo (lenticchie speziate e condite con ghee – un burro chiarificato -, olio e spezie), le melanzane in agrodolce, patate novelle piccanti cotte a fuoco lento (lake ka dum aloo), il kofta ka salan, una polpetta di patate servita con salsa di arachidi e sesamo – e, elementi immancabili di qualsiasi thali, riso basmati in bianco o con piselli, e un pane sfogliato, dal morso tenace, quasi calloso, la paratha.

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Fino a chicche introvabili, se non nei ricettari delle nonne indiane, piatti poveri, semplici, che impari a conoscere esplorandoli, senza distinguere visivamente tutto ciò che vi appartiene: è il caso del Kichadi, una zuppa di cereali misti (soprattutto quinoa) cotti lentamente, a cui poi si aggiungono fuori cottura pomodoro, cipolla fresca e fritta, peperoncino, okra, zucchero di canna e coriandolo.

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Cotture dolci, piatti della nonna, piatti regionali: ma può esistere una finestra di dialogo tra la cucina italiana e quella indiana? La risposta arriva chiara e tonda da Ritu Dalmia in persona ed è negativa, perché ciascuna di queste due tradizioni è settata su un corredo di sapori completamente diversi.

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Le differenze, d’altronde, emergono anche solo dalla maniera stessa in cui si mangia: già, perché la cultura indiana vuole che il cibo venga consumato senza l’uso delle posate, e quindi con le mani, mezzo che potenzia la relazione tra l’uomo e la materia, e che apre la via alla condivisione. Eppure, per essere ancora più precisi, dovremmo dire con la mano, dal momento che, salvo rarissime eccezioni, l’arto designato è quello destro: il boccone viene preparato e portato alla bocca con la mano destra, mentre con la sinistra, adibita a usi diversi rispetto a quello del cibarsi, viene prelevata la porzione dagli assaggi posti al centro della tavola.

È lo stesso popolo che, sorprendentemente, sceglie spesso il nostro Buon Paese come scenario di matrimoni dalle mille e una notte (per esempio al St.Regis Florence), con centinaia e centinaia di invitati; al cuore dei festeggiamenti, ghirigori all’hennè per rivestire il corpo, benedizioni, riti che centralizzano inossidabili legami familiari, perchè la famiglia in India è una cosa seria.

Ultimo: questa popolazione ha un debole per il dolce, non quello che rifresca il palato e lo ripulisce a fine pasto. No, parliamo del dolce-dolce: rotondo, cremoso, consistente come sa esserlo uno Shahi tudka: fette di pane fritte nel ghee e imbevute di sciroppo di zucchero profumato alla rosa e al cardamomo, ricoperte di latte zuccherato e addensato con un pizzico di zafferano (il tocco della chef Dalmia, un omaggio a Milano), guarnito con lamelle di mandorle.

Dolcezza assoluta per un viaggio che vorresti non finisse mai.

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