Viaggio a Castelfranco Veneto dove prosecco, asparagi e radicchio abitano insieme al Giorgione
Castelfranco Veneto, nella Marca trevigiana, non ha stagioni. E’ accogliente sempre: non a caso nel 2020 è stata premiata come Borgo più bello d’Italia, mentre nel 2018 è stato il suo romantico polmone verde di Villa Bolasco ad imporsi come il parco più spettacolare del nostro Paese. Quando si ha l’asso nella manica della presenza di due delle complessive 22 tele dipinte in vita dal castellano Giorgione, uno dei più grandi pittori del Rinascimento, ecco che anche un Comune di 33mila abitanti, a 30 chilometri da Treviso, 35 da Padova e 43 da Venezia diventa un capolavoro da vivere non come tappa, ma come meta stessa del viaggio. Ma per riuscirci bisogna avere buon passo, tanta curiosità e sapere che Castelfranco non si ferma mai. La visiti oggi, ma tra un mese sarà già diversa con, per esempio, il completamento del cammino sulla cinta muraria del castello e la mostra “Il Giorgione di Dumas” visitabile fino al 29 settembre. [[ima2]]
A Castelfranco se sei astemio smetti di esserlo perché un calice di prosecco è il benvenuto ad ogni porta che apri, qui le tradizioni hanno radici ben salde nella terra. L’inverno è il regno del radicchio variegato di Castelfranco Veneto mentre da marzo a fine giugno la cucina del territorio è improntata sull’asparago bianco di Badoere, entrambi prodotti Igp. Ma, sotto il profilo enogastronomico, si potrebbe fare molto di più. La torta Fregolotta (molto simile alla sbrisolona mantovana) e il liquore Prugnola, con prugne selvatiche, sono indicati come le specialità del luogo, la realtà è che in nessun locale in cui abbiamo mangiato e bevuto ci sono state proposte.
E poi, con un Giorgione in casa e di casa, perché non inventarci qualcosa di fantasioso e unico da proporre come filo conduttore nei vari locali? Per esempio, un cocktail o un gusto di gelato, un cicchetto o un lievitato o un biscotto speciale. Qualcosa che si possa acquistare solo qui e sempre (senza seguire il ciclo delle stagioni).
In attesa di un dolce Giorgione, abbiamo fatto tappa alla Pasticceria Fraccaro, riferimento storico della tradizione di Castelfranco, nata nel 1932 quando le foto erano ancora in bianco e nero: Elena e Giovanni Fraccaro acquistarono un panificio con forno a legna specializzato in lievito madre, proprio sotto la Torre dell’Orologio. Negli anni ’50 allargarono gli orizzonti a dolci a lievitazione naturale come panettoni, pandori, focacce dolci, colombe… Giunti alla quarta generazione, sono cambiati i numeri ma non lo spirito della famiglia che parla ancora il dialetto, racconta storie bellissime dei propri avi e fa capire come il coraggio e la tenacia delle donne Fraccaro siano state il motore di una grande impresa. Maria Rosa, 77 anni, ogni giorno è la prima a scendere nella pasticceria e punto vendita annessi allo stabilimento e l’ultima ad andarsene. Con affetto mi racconta della la sua mamma che a 97 anni segue ancora la politica, di quella volta che il principe Alberto ordinò 1.100 panettoni e di quando lei, emozionata, fuori dal museo Prado di Madrid salutò il passaggio in auto della regina Elisabetta. «Sogno – mi confida – di tornare a Praga che ho già visto 3 volte, ma mi è entrata nell’anima». [[ima3]]Per lei come per tutti i Fraccaro il lavoro è qualcosa di naturale, ci sono cresciuti da piccoli affiancando sempre la scuola al laboratorio: è stato il loro modo di essere famiglia. Oggi i dipendenti sono una sessantina, oltre 600mila i panettoni sfornati durante l’anno con il 70% delle vendite messe a segno in 40 Paesi del mondo, tra i quali Australia, Brasile, America, Giappone…
E a proposito di mercati esteri c’è un’altra realtà alimentare su questo territorio, accreditata come il principale esportatore di pasta nel mondo, con oltre 9 milioni di pezzi distribuiti in 106 Paesi per un fatturato di oltre 300 milioni di euro: è il Pastificio Bragagnolo, anche in questo caso una bella storia di lungimiranza famigliare giunta alla quarta generazione. Tutto è nato quando Emanuele Bragagnolo, impresario edile di Castelfranco Veneto, durante un viaggio in Campania, rimase incantato dalle distese di maccheroni sugli assi di legno ad asciugare all’aria. Al ritorno nel 1890 aprì un piccolo laboratorio artigianale trasformato già nel 1918 in azienda industriale da suo figlio Umberto, con l’inaugurazione nel 1932 di una filiale a Zara. E sarà proprio in omaggio a quel ricordo che nel 1943 Umberto dà all’azienda il nome di Pasta Zara. «Una grande passione – spiega il presidente Furio Bragagnolo -, tramandata di padre in figlio. Il nostro presente parte dal passato e guarda al futuro». Proprio la voglia di alzare sempre più l’asticella in un indissolubile legame con il territorio ha spinto il presidente ad affiancare la Pasta Zara ad una linea premium a marchio Pastificio Bragagnolo, con grano 100% italiano e a superare ogni ostacolo (e ci sono stati) anche per rispetto ai 170 dipendenti, tutti del territorio.
I grandi numeri ma anche quelli piccoli, fatti per tenere acceso il sogno di nonno Luigi Manera che nel 1950 piantò le prime vigne per non farsi portare via i terreni dalle industrie. Alla Cantina Manera Luigi tutto è rimasto come allora, senza la smania di partecipare a fiere importanti o di inseguire mercati esteri. Qui ci sono 10 ettari e una produzione (di cui il 60% a varietà rosse ed il 40% a varietà bianche) che va sold out sul territorio. A lavorarci papà Renato, la moglie Daniela, i figli Fabio e Linda impegnati in una produzione annua di 2.000 ettolitri in buona parte venduti sfusi, con l’acquirente che arriva con la propria damigiana da riempire direttamente alla botte. [[ima5]]«È il nostro modo di stare con la gente e per la gente – spiega Fabio – Abbiamo un rapporto di fiducia con la clientela. Siamo su una strada di grande passaggio, si fermano in tanti. Questo lavoro è la nostra passione persino quando una burocrazia esasperata prova a mandarci fuori di testa». Dodici vini, i più gettonati sono naturalmente i prosecchi (normale e millesimato), il rosato Aura Letitiae, il rosso Manera, l’Incrocio Manzoni e il Cabernet Sauvignon.
A poca distanza dalla cantina famigliare ti trovi catapultato da FerroWine, aperta nel 2014 e definita l’enoteca più grande d’Europa. [[ima6]]«Nessuno ci ha smentito – spiega sorridendo Giovanni Ferro, proprietario insieme alla sorella Michela – quindi deve essere proprio così». Questa è una cittadella del buon bere, con oltre 8mila referenze tra vini, liquori e distillati, birre artigianali disposti su oltre 1.500 mq di esposizione dal design elegante e moderno, più un caveau con i grandi vini italiani e francesi e le bottiglie di maggior pregio, come il Petrus Grand Vin Pomerol, annata 2015, 8.540 euro l’una. Me lo mostra Yanelis, la sommelier cubana che da astemia è diventata una delle grandi professioniste di FerroWine. [[ima7]]«Durante la pandemia – ricorda Giovanni – sono stato un capitano coraggioso, ho studiato con quali strategie potevamo riprenderci il più in fretta possibile. Ci siamo riusciti. Non stiamo mai fermi. Organizziamo un sacco di cose, tra eventi e corsi arrivamo a 180 appuntamenti all’anno». Ad “ingolosire” la struttura un curato bistrot che prepara cicchetti e un buon risotto agli asparagi.
Castelfranco Veneto offre diverse alternative per concedersi un pranzo o una cena tra tradizione e creatività. Se la scelta gourmet è a occhi chiusi su Feva che con lo chef Nicola Dinato lavora molto sull’impegno quotidiano di ridurre l’impatto sul clima con azioni concrete come, per esempio, coltivare in proprio cinque varietà di cereali per fare il proprio pane e la pasta. Due i menù degustazione, Anima e Corpo, che spiegano già nel nome come la cucina sia una filosofia di artigianalità “verde”.
Nella buona stagione il ristorante più panoramico è Alla Torre con un’ampia terrazza affacciata sulla piazzetta del centro storico. Qui, ve lo diciamo subito, la prima sensazione è di disorientamento perché vi propongono più mare (dalle cozze alla marinara agli spaghetti al cartoccio) che terra, ma andate a colpo sicuro sulle tenere e saporite guancette di manzo brasate al vino bianco con polenta.[[ima8]] E se volete un primo che vi racconti dove siete optate per i bigoli all’anatra, la pasta e fagioli o i ravioli agli asparagi con mascarpone e frutta secca tostata. Lo chef Andrea Righi, classe 1997, gestisce un ventaglio di posibilità molto ampio: ci sono i turisti, ma anche chi alla Torre ci va per il pranzo di lavoro, per un incontro conviviale o per una pizza. La sala è ampia, il servizio veloce, sulla carta vini si può fare di più e meglio.
Il ristorante storico è il Rino Fior con 80 anni di vita al servizio dell’intera regione. Tutto iniziò con papà Rino e mamma Maria che per divertimento organizzavano ricevimenti presso le abitazioni contadine e poi scelsero di trasformare la loro passione in professione, aprendo una trattoria. Dopo la morte prematura di Rino nel 1971, è stato il figlio Egidio con la compagna Marisa a prendere il timone, trasformando l’iniziale osteria paterna in un luogo dove condividere cibo, vino e passioni. Egidio Fior che ancora oggi dice la sua tra i fornelli, intorno al ristorante ha promosso diverse iniziative dando dal 1999 energia e visibilità al Consorzio Ristoranti del Radicchio con la manifestazione Radicchio d’Oro che ogni anno premia personaggi del gusto, dello sport, della cultura e dello spettacolo. Ma lui è stato anche un grande patron nel ciclismo (nella sua squadra tra gli altri hanno corso Maurizio Fondriest, Paolo Savoldelli e Ivan Basso) e per non farsi mancare nulla dal 2001 fa il servizio di catering alle finali di Miss Italia. «Mi mantengo giovane» ride Egidio che poi mi porta a vedere l’intero ristorante composto da 12 sale che arrivano fino a 450 i coperti «nelle giornate di grazia». Lui oggi ha 77 anni, ha iniziato a 14 anni «con le braghe corte» quando la specialità di casa era il pollo alla creta che richiedeva 4 ore di cottura. [[ima9]]«Oggi – racconta – la tradizione rimane la base da non tradire, ma la rielaboriamo con ingredienti o tecniche nuove. Ma sue due concetti abbiamo fermato il tempo: il carrello dei bolliti al giovedì sera e la pasta che deve essere sempre fatta in casa». Un menù, tra l’altro, firmato da tre chef ognuno con mansioni specifiche: Denis Masiero per gli antipasti, Chiara Tegolina per i primi piatti, Matteo Cassolato per i secondi. Ottime le verdure pastellate, leggere e senza unto, originali gli asparagi bolliti con spuma di zabaione e speck croccante. E poi qui il tradizionale risotto con gli asparagi diventa qualcosa di più perchè mantecato all’asiago e al miele di Sulla, mentre gli insoliti pistacchi vengono abbinati al medaglione di vitello sottolineando come nella cucina i confini non esistono. Naturalmente non mancano mai i bigoli con sugo d’anatra, il baccalà alla vicentina con polenta, i tortelli o i tagliolini al tartufo e la consuetudine delle carni alla brace in più varietà e tagli. Interessante e ben assortita la carta vini che, tra l’altro, conta 32 etichette di spumanti (tra metodo classico e charmat) e 6 di champagne.[[ima10]]
Ma come sempre succede quando viaggi, conosci ed assaggi senza l’obbligo di fare classifiche, ogni volta c’è un luogo che ti entra di più nel cuore. Io l’ho trovato incastonato tra le mura sotto la Torre dell’Orologio: il ristorante All’Antico Girone, raffinato nei dettagli e con un servizio premuroso ed attento. A sorprenderti la giovane età dei proprietari, Laura Gentilini e il marito Mauro Dal Din, entrambi under 40. Hanno rilevato il locale nel 2022, mettendosi al fianco l’amico chef Paolo Bavaresco, 35 anni, e la sua idea di cucina che non segue mode, ma accarezza l’anima del territorio. [[ima11]]«La cucina moderna – ammette lo chef– non mi piace, non inseguo neppure il viaggio come fonte d’ispirazione. Tutto quello che mi serve ce l’ho intorno a me. Non rinuncio a nessun ingrediente del territorio, ho imparato dal nonno la bellezza di coltivare un orto e dalla nonna la bontà d’impastare focacce». [[ima12]]Lo chef non sogna in grande, lui è come la sua cucina: tre mq di spazio, l’essere che coincide con l’essenziale. E da quella cucina minimalista escono cose intriganti, ben impiattate e mai banali: un gioco di consistenze, di colori e di profumi. Un menù che non ha bisogno di grandi numeri in fatto di proposte, 5 è il numero perfetto tanto per i primi piatti tanto per i secondi, mentre 6 sono gli antipasti per 52 coperti. Ma dentro quella carta che cambia ogni 2-3 mesi c’è la ricerca della materia prima e della voglia suprema di portare avanti ciò che piace. E non sarà un caso se il miglior risotto agli asparagi di Bassano del Grappa e uovo mimosa l’ho mangiato proprio qui, preceduto da un flan di bisi di Borso su fonduta di Morlacco con olio al basilico e gelato al parmigiano. Fateci caso: ogni ingrediente portante ha una provenienza territoriale precisa e così succede anche per la sella di coniglio arrosto con salsa di carote ed erbette primaverili. Un posto dove tornerei anche domani.[[ima13]]
Un paio di indicazioni per dormire, tenendo conto che Castelfranco Veneto non ha hotel 5 stelle ma una capienza ricettiva di 600 posti letto suddivisi in 28 strutture. L’ Albergo al Moretto, 4 stelle, si affaccia sulla piazza principale, risale al ‘600 ed è saldamente nelle mani di Luciana Rigato che a 80 anni si muove con il piglio della ragazzina, felice di un’ospitalità che deve far sentire a casa.[[ima14]] Ognuna delle 45 camere è diversa nei colori, la sala colazione ha policromie pastello e porcellane firmate, la clientela non è più aziendale come un tempo ma aperta a un turismo internazionale. E poi un altro 4 stelle, l’Hotel Alla Torre ubicato in un palazzo nobiliare del ‘500, ristrutturato e ampliato, ma con immutate le suggestioni del tempo e la “dolcezza” imprenditoriale che da 36 anni è legata alla stessa famiglia Zanon: prima papà Danilo, oggi i figli Valentina e Paolo. Hanno tra le mani un Giorgione dell’ospitalità e non tradiscono le aspettative. [[ima4]]