Trattoria che passione: perché fermarsi da Menabò a Centocelle, Roma

Roma, Centocelle.

Non siamo a Piazza di Spagna, non siamo nemmeno a Trastevere, eppure qui c’è più Roma di quanto possiamo immaginare; c’è la Roma di chi la vive ogni giorno, una Roma che non sembra neanche tanto Roma. Una periferia sempre più centrale, ben lontana da quell’accezione di brutale distacco rispetto a ciò che solo apparentemente può sembrare l’unico nucleo vitale dell’urbe capitolina.

Una dimensione ospitale per tutti, popolare e densamente popolata, un quartiere che evolve e che nel suo processo di trasformazione, non ha potuto che stimolare lo sviluppo di una proposta gastronomica, ancora ristretta certo, ma attraente e soprattutto in grado di generare un flusso inverso, dal centro verso una vibrante periferia.

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Ed è qui che arriviamo, per raggiungere non proprio una novità della scena godereccia cittadina dal momento che Menabò Vino e Cucina apre già nel 2018, quando i fratelli Camponeschi, Paolo e Daniele, decidono di dar vita al loro locale a Centocelle, senza “se” e senza “ma”, mettendo insieme ciò che più li aggradasse: cibo genuino, (tante, tantissime) bottiglie selezionate con cura e un’accoglienza sincera, ripulita da ogni eccesso narrativo perché questa, dopotutto è una trattoria. Eppure, senza cascare nell’ “immobilismo” di tale definizione, e in una città dove la tradizione ha il suo peso specifico, quest’insegna ha scelto di essere sopra ogni cosa, un menabò.

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In tipografia, lo ricordiamo, il menabò è un modello di lavoro che si ottiene incollando bozze di stampa e illustrazioni in apposite riquadrature corrispondenti a colonne e pagine di un foglio di giornale. Un prototipo in cui nulla è del tutto definitivo, in cui è possibile tagliar via o aggiungere…su un giornale, in cucina e persino in cantina.

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Ecco perché Paolo Camponeschi, al timone dei fornelli del suo Menabò, non ha mai chiuso gli occhi, avidi, sensibili alla vita attorno a sé, protraendo lo sguardo fino a quanto collezionato ancor prima della nascita di questa insegna: paesaggi che lo hanno avvicinato a una conoscenza diretta dei cicli biologici, di quella stessa materia prima che poi trasforma con rigoroso rispetto; la pastorizia che illumina e contamina il suo universo nel quale attecchisce il profumo del fieno, di stalla, il profumo animale, di latte appena munto; e poi la freschezza di primizie appena raccolte, turgide, brillanti, qualche volta imperfette, eppure vettori di un sapore antico; infine, l’incantesimo di cotture che nella loro durata prolungata, estesa, amplificano e anticipano lo spessore del piacere di chi ne godrà, evocando in quel bisogno di nutrire e non solo di appagare, un caloroso senso di familiarità. A tutto questo si somma Centocelle, la sua stratificazione culturale e perciò, la necessità di accogliere anche in un piccolo ristorante di quartiere, sottili venature esotiche, invitando i sapori più noti al nostro vissuto a mescolarsi con quelli di un esteso Mediterraneo.

Poi c’è Daniele: Daniele e quella carta vini mai abbastanza ampia; Daniele, laureato in letteratura tedesca, traduttore e interprete; Daniele che prima ancora di accogliere e accompagnare gli ospiti tra piatti e calici, lavora in pasticceria e, infatti, tutti i dolci da Menabò sono i suoi; ma Daniele è anche sommelier, perduto amante del buon bere che non predilige gli abbinamenti al calice (ma non per questo si astiene dal proporli); preferisce sorseggiare lentamente, lasciando che il vino si racconti da sé.

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Sia ben chiaro: ciascuno può vivere una cena da Menabò come meglio crede, “abbozzare” l’esperienza seguendo i propri impulsi e, quindi, concedersi un piatto e via o pasteggiare balzando da un calice all’altro; perché il senso di Menabò è poter offrire una cucina di sostanza, a prezzi onesti, senza doversi privare della gioia di una grande bottiglia. Fino a eclissare il teorema per cui cucina da trattoria equivalga necessariamente a piatti unti e pesanti, insomma più di pancia e meno di ragionamento. Qui si annullano porzioncine che appena appena consentono di sfiorare il gusto; il piatto c’è e invita a rallentare, a goderselo dal principio alla scarpetta, lasciandosi attraversare e consolare da quella sacra combinazione di tempo e materia, di cura gentile, guazzando lieti nella dimensione del “cucinato”. Non si avverte, invece, la necessità di omologarsi, di essere l’ennesima trattoria romana tutta carbonara-amatriciana-cacio&pepe, di propinare dolci dalla spiccata acidità, quasi che la dolcezza fosse un peccato capitale, né adattarsi alla retorica del fermentato.

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Meglio dare un’anima, rilassare, senza compulsare il palato con sbalzi estremi, ma far vivere l’ingrediente nella pienezza del suo sapore e del suo tempo migliore, cambiando di continuo il menu, ma conservando altresì gli irriducibili, il fegato di maiale nella rete, con cipolla e alloro, fegato intatto, senza scremature, irruento, raggiunto dal profumo dolce di alloro; la pecora, multifome, perfetta stufata, condisce una fregola con carciofi saltati e pecorino; il cortile – coniglio, galletto – ma anche agnello, costine e coratella, cotte alla brace, succose con misticanza selvaggia. Semplici, penetranti piaceri. Centocelle caput mundi.

E ora i nostri deliziosi assaggi alla tavola di Menabò

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