“Non me la bevo”: il nuovo libro di Michele Fino analizza le narrazioni del vino

Viviamo in un periodo storico particolare, di cosiddetta ipercomunicazione, in cui molti di noi, per non dire tutti, hanno spazi per esprimere idee e opinioni. Finendo spesso, purtroppo, per moltiplicare le voci, senza per questo aumentare la comprensione tra le persone. Si comunicano i punti di vista, le opinioni appunto, spesso con forza e vis polemica, senza far crescere l’ascolto reciproco e rischiando invece di ridurre la capacità, da parte di chi ascolta o legge, di approfondire gli argomenti, cogliendone gli aspetti oggettivi. 

E’ per questo che chi oggi fa divulgazione, chi si dedica al compito mai facile di fare ricerca e di studiare le questioni per poi spiegarle agli altri, merita particolare attenzione. Un ottimo esempio di questo approccio è quello di Michele Antonio Fino, piemontese, professore associato di Fondamenti del Diritto Europeo nell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, dove guida anche l’Unità di Ricerca “Dell’origine. Identità, autenticità e contraddizioni del cibo”. Attraverso i social, e in particolare su Instagram con l’account @ermezio, si dedica molto spesso all’approfondimento e all’analisi di argomenti delicati e complessi. 

Nel 2021 ha pubblicato, con Anna Claudia CecconiAndrea Bezzecchi, il libro “Gastronazionalismo” (per la casa editrice People), con cui anticipava temi di grande attualità, come l’uso delle tradizioni gastronomiche (o le presunte tali) per motivazioni di orgoglio campanilistico che spesso sfociano in propaganda nazionalista. Da pochissimo, dal 14 maggio, è uscito invece nelle librerie “Non me la bevo – Godersi il vino consapevolmente senza marketing né mode”, pubblicato da Mondadori (si può comprare qui), che nelle note di copertina troviamo descritto come “una coraggiosa azione di debunking delle mode e delle leggende che il marketing ha infilato con abilità nei calici che ogni giorno alziamo al cielo”. 

«Il primo obiettivo di “Non me la bevo” – ci racconta Fino – è quello di fare debunking intorno alle storie che si raccontano a riguardo del vino. Perché il vino è tra gli alimenti tipici della cultura di questo Paese, un alimento che ha una storia molto lunga e che si porta dietro un notevole carico di valori identitari. In tanti hanno provato a utilizzare storie e narrazioni più o meno fondate per vendere meglio il prodotto, per renderlo più gradito, per imporlo magari anche con qualche accento nazionalistico, legandolo a una presunta identità mediterranea e specificamente italiana. Insomma, amiamo tutti pensare che il vino sia cultura: il vino però è innanzitutto un prodotto alimentare, un bene di mercato, e intorno a questo si è costruita la cultura del vino, non a prescindere da questo».

[[ima2]]Un ottimo esempio di questo approccio è il capitolo con cui si apre il libro, intitolato “Il vino si è sempre fatto così (anzi, no)”, in cui si parte dalla convinzione, radicata in molti di noi, che fare il vino sia una pratica millenaria che si è tramandata pressoché intatta sino a noi. 

«Il vino si è sempre fatto, le pratiche sono effettivamente millenarie – ci spiega ancora l’autore – il problema è che c’è un prima e un dopo il 1860, cioè il momento in cui Pasteur capisce e dimostra che produrre il vino è una questione microbiologica. Fino ad allora c’era forte dibattito tra anche tra i conoscitori e gli esperti a livello scientifico, c’era chi sosteneva che il vino fosse una questione fisica, una questione chimica e non microbiologica. Tant’è che in molti dialetti italiani, e nel mio in particolare, non si dice fermentare, si dice bollire: il fatto che il vino sviluppi calore durante la fase fermentativa era associato a un cambiamento di stato di tipo fisico. Fino al 1860 le pratiche legate alla produzione del vino ripetevano gestualità che avevano funzionato in precedenza. Dopo la pubblicazione degli studi di Pasteur, tutti hanno compreso la realtà scientifica della vinificazione e hanno iniziato a fare vini secchi applicando i medesimi procedimenti: per cui anche se oggi riscopriamo antiche tecniche, vasi di terracotta come facevano i Romani, non possiamo prescindere da Pasteur e dalle conoscenze che sono state codificate».

E’ solo un esempio dei molti temi che Michele Fino affronta nelle pagine di “Non me la bevo”, che prosegue raccontando la nascita e l’evoluzione – tra Soldati, Veronelli e contemporanee visioni no logo – del concetto di vino contadino, mettendo nella giusta prospettiva le affermazioni che ne sancirebbero la superiorità rispetto al vino industriale. O toccando un altro argomento di notevole attualità, che riguarda il rapporto tra vino e salute: sono due i capitoli che affrontano questo rapporto, sia da un punto di vista più legislativo e politico, in relazione in particolare alle normative europee, sia da un’angolazione che nuovamente prende in esame le narrazioni: quello che ci raccontano e che ci piace raccontarci sul vino che farebbe “buon sangue”. 

Fino parla poi di etichette e delle informazioni che possiamo cogliere leggendole attentamente, della storia delle denominazioni d’origine italiane (spoiler: anche in questo caso sono meno antiche di quel che spesso pensiamo), di differenze tra vino biologico, biodinamico, vegano, naturale. Proseguendo la sua opera di smitizzazione e contemporaneamente di divulgazione. Fornendo così ulteriori e preziosi strumenti di comprensione e di futura analisi ai lettori. Che continueranno a essere appassionati di vino, ma con maggiore consapevolezza. 

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