Materia, atmosfera, creatività senza confini da Yapa, a Milano

Milano è una terra fertile per le cucine del mondo, ma anche di format originali che esulano da un modo convenzionale di concepire la ristorazione. Luoghi che diventano a tutti gli effetti incubatori di atmosfera, dove ogni singolo dettaglio non è lasciato al caso così da offrire all’ospite la possibilità di distaccarsi dal tessuto urbano e rifugiarsi in una dimensione parallela: la musica, il colore delle pareti, il bancone, l’illuminazione e soprattutto le persone che vivono il locale diventano habitat, offrendo attraverso la loro singolare identità, ciò che sarebbe impossibile trovare altrove.

Tutto questo ci fa pensare a Yapa, in viale Monte Nero a Milano. Certo non è una novità della scena gastronomica meneghina e, infatti, il nostro Niccolò Vecchia ce ne parlava già un paio di anni fa (potete leggerne qui); eppure è interessante osservare in che direzione stia remando questa solida insegna e cosa, invece, sia mutato nel tempo.

Yapa, lo ricordiamo, è nucleo d’espressione del viaggio, anzi dei viaggi che Matteo Pancetti, toscano, ha collezionato in ogni angolo del globo, portando con sé succulenti ricordi gustativi e, dopo tanto migrare, assieme al bar manager e amico, l’argentino Matias Sarli, decidono di proiettare il futuro a Milano, reduci da un pop up di successo in cui bocconi memorabili venivano abbinati a cocktail strepitosi. È così che ha inizio il cammino di Yapa.

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Un’analisi temporale ci tiene a condividerla proprio Matias spiegandoci come il pubblico del locale sia andato evolvendo anno dopo anno. Si parte con una prima ondata di addetti ai lavori: chef, ristoratori, appassionati e curiosi approdano al bancone di Yapa per vivere un menu che abbatte gli schemi tradizionali e che si concentra, invece, sulle diverse tipologie di preparazioni e cotture (raw, tempura, dumplings, tacos, wok e robatayaki – il bbq made in Japan), con piatti da condividere e…con cui sporcarsi le mani.

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Poi, innescato il passaparola, la città intera ne subisce l’attrazione, mentre oggi, alla tavola di Yapa, finalmente incontriamo il mondo, un pubblico internazionale che si diletta ogni sera di morso in sorso.

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A proposito dei sorsi, lungi dalla tendenza italiana di “pomparne” il tenore alcolico, questi risultano ben dosati, “ammorbiditi”: «Chi viene da noi riesce tranquillamente a concedersi 4/5 cocktail a sera senza alcun problema – commenta Matias – perché il nostro scopo non è quello di marcare eccessivamente la nota alcolica, ma dare priorità al gusto».

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Ce ne accertiamo, accompagnando le diverse portate con una sequenza di drink, in grado di ricostruire in diversi casi, persino l’idea di un piatto in forma liquida. Il ceviche per esempio, anima di un Tijuana, a base di vodka di quinoa, aji amarillo, liquore di pannocchia di mais e soda vegetale al leche de tigre; ceviche che, naturalmente, ritroviamo anche nella sua forma originaria e quindi bocconi di ricciola, soda, compatta, dal morso carnoso, grassa. Consiglio di degustazione: mescolare tutti gli ingredienti vigorosamente.

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La crema di patata dolce aromatizzata al tamarindo, fuoco di jalapeño, leche de tigre (a base di lime, peperoncino, cipolla, aglio, freschissimo) per marinare il pesce, qualche goccia d’olio al coriandolo che apporta una sottile nota erbacea, appena dolciastra e poi mais – varietà cancho – dal Peru. Sì perché questo cereale, il mais appunto, è il vero filo conduttore del menu di Yapa: eccolo nella varietà azul, in una tostada, o in croccanti tortillas di un Aguachile de piña, specialità made in Mexico, si tratta di una miscela di acqua e peperoncino, corroborata qui da succo d’ananas alla brace, lime e coriandolo che penetrano un crudo di capasanta; in chiusura, chia croccante.

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Ora, il punto migliore in cui godersi questo e molto, molto altro è certamente il bancone: non esistono filtri tra ospiti e cuochi, tra commensali e barman; ogni preparazione viene svolta sotto gli occhi di chi mangia o sorseggia un drink; non esiste un back, non esistono zone d’ombra, eppure chi è impegnato a spadellare, arrostire e sfilettare, riesce a non isolare il cliente; lo coinvolge, lo attrae, senza mai invadere il suo spazio.

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In campo, una brigata davvero giovane (quasi tutti under 30), entusiasti di sentirsi finalmente “sbrigliati” da codici comportamentali troppo rigidi, liberi di familiarizzare con la tecnica “senza pressioni” e di contribuire da co-attori al processo creativo, come dimostra la messa a punto quotidiana degli special, sfruttando al massimo “quel che passa il convento”, mare o terra che sia.

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Un flusso di energia perpetuo che, in ultimo, si concentra nella materia, nella possibilità di viverla: «Non c’è altro modo possibile» commenta Matteo, mentre presenta un pan y tomate e quello che solo apparentemente potrebbe sembrare un jamon iberico, perchè in realtà si tratta di un tonno rosso, tagliato in filetti sottili, sottilissimi, conditi con olio extravergine d’oliva, capperi, oliva taggiasca e zest di limone d’Amalfi – Mediterraneo assoluto, sul palato e nelle narici; il tonno suda, si scioglie sul pane e conserva, intanto, la carnosità tenace del prosciutto. Nell’atto di imbrattarsi si concentra la naturalezza con la quale occorre approcciarsi alla tavola – disinibiti – e al gusto, trattenendone la pienezza.

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Esattamente come chi ha viaggiato, esattamente come Matteo e Matias che hanno trattenuto nella loro memoria olfattiva, sulla bocca, tra le dita, la densità dei sapori, la loro consistenza e ne hanno scritto un trattato interiore che ogni sera viene riversato al bancone di Yapa.

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Con tutta la voglia di emozionare, elaborando in ogni scelta, azione, abbinamento “quel qualcosa in più”, perché dopotutto è questo il senso di Yapa: ciò che va oltre ogni aspettativa, ciò che sorprende. Ciò che ti attira e invita alla scoperta. Viaggiando nel gusto, senza confini.

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