Il vero lusso? Sfuggire all’ovvio: parola di Massimo Viglietti, chef del ristorante Relais Le Jardin, Roma

L’esperienza di un cuoco non può essere diluita nello spazio di una cena; né ci è concesso di carpire l’evoluzione di una vita da un percorso di 5/7 passaggi.

Chi assaggia non s’illumina d’immenso a comando, non può entrare in immediata sintonia con un pensiero, soprattutto quando la maniera di interpretare un piatto nella mente di chi crea, si figura in maniera diametralmente opposta rispetto a chi è invitato a scoprirlo. E così occorre fare uno sforzo in più, ascoltare, sviscerare, parlare e comprendere quella diversità di visioni, onorando quindi sia l’esperienza che il seme originario di un piatto.

Ce ne siamo convinti alla tavola di Relais Le Jardin, il ristorante fine dining del Lord Byron Hotel, quartiere Parioli a Roma, dove da circa un anno ha preso le redini della cucina il ligure Massimo Viglietti, che in quel luogo sognava di fermarsi dal suo primo approdo nella Capitale e dove trent’anni fa hanno brillato le prime due stelle Michelin dell’urbe capitolina.

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Originario di Alassio, deve tanto ai suoi genitori; deve tanto alla Palma, il ristorante di famiglia – due macaron e tanta passione -, dove inizia a capire cosa, ma soprattutto chi volesse diventare; un cuoco, un cuoco libero, un cuoco che sceglie questo mestiere non tanto per lamentarsi e sentirsi frustrato, costretto a un unico campo base vita natural durante, a macinare ore a testa bassa subendo pressioni e richieste tali da snaturare la forza creativa, declassando il genio a mero esecutore: «Per fare questo mestiere bisogna divertirsi, sbagliare e accogliere la convinzione che non puoi piacere a chiunque. Di ore ne passi chiuso in un ristorante, quindi tanto vale farlo provando a creare qualcosa che rappresenti noi stessi fino in fondo», dichiara Viglietti. Lascia Alassio molto presto Massimo, ma non ha mai dimenticato la sua terra e, infatti, i profumi che gli appartengono tornano a piccole dosi, senza mai abbandonare la tradizione a sé stessa – una panissa per far scarpetta con della riduzione alla Coca- Cola, o un Pansotto come un gyoza ripieno alle erbe – soffiando un alito di nuovo sul ricettario della memoria. Lascia Alassio, dicevamo, e per almeno un anno i suoi non gli rivolgono la parola, mentre Viglietti inizia a frequentare gli illustrissimi di Francia, Paul Bocuse, Louis Outhier e Roger Vergé, e così scalfisce, lima, approfondisce, fino all’attracco nell’urbe capitolina, salpando tra nuove aperture e palcoscenici vari come lo sono stati Achilli al Parlamento o Taki Off, ed è qui che si rivela la “fattura della stoffa” di questo cuoco: cresta argentea, tatuaggi, eppure non per questo parleremo di cuoco “dall’anima rock”. Viglietti, piuttosto, è un visionario, artista dannato o dannato artista, che sa trovare una giustificazione alle sue idee, sempre, e quando te ne rende partecipe, difficilmente si trova modo di contrastarlo, perché squisitamente coerente. Si guarda allo specchio, alza una mano: «Ciò che riusciresti a vedere in questo specchio è già diverso rispetto a quanto possa vederci io. Ecco, nella cucina, nell’approccio al sapore, accade più o meno la stessa cosa». Siamo condizionati dal nostro vissuto, da quello che ci ha attraversati e da quello che abbiamo assaggiato; quindi è del tutto naturale non riuscire a trovare conforto in una data visione «come non è del tutto semplice accettare la diversità, eppure è nel confronto tra visioni – aggiunge Viglietti -, nella singolare disamina di una pietanza che ciascuno offre, che sussiste la vera bellezza di questo lavoro».

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E così, si viaggia da Oriente a Occidente, dalla Pianura padana alle coste dell’Italia intera; si commemorano preparazioni classiche, lavorando sulle medesime sensazioni di gusto da esse provocate, servendosi, però di altri “canali”, fino all’atto di sbriciolare dei confetti al cioccolato su un petto di piccione cotto alla perfezione, succoso – e il punto di partenza, a guardar da vicino, è la dolcezza intrinseca di un’anatra all’arancia -; Provenza, Provenza assoluta di un agnello dolce servito a mo’ di roast-beef con maionese all’acciuga e patata viola soffice, poi una dadolata di verdure come una giardiniera, Provenza per Viglietti, e Piemonte per noi, con il ricordo lontano di un vitello tonnato; amaro, amaro, amaro violento che irrompe sul palato, e solo in sporadici attimi è spezzato, depotenziato dalla bottarga a fette – e non grattuggiata – su un nido di spaghettini al nero.

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E poi ancora, doppia grassezza che si disperde nella pienezza delle consistenze; queste si alternano in un’insalata fredda di lenticchie sbollentate, caviale e noci pelate, dolci, (così da eliminare, questa volta, ogni traccia di amarezza), senza sale aggiunto perché le uova, saline, sprigionano più o meno iodio a seconda del boccone, condite con aioli e midollo: difficile è trovare una giustificazione al piacere, eppure ne vorresti ancora. Il palato non trova un centro verso il quale convergere e, fuori rotta, segue ondulazioni fino a chiedersi come possa essere emersa dal magma creativo una simile pulsione.

Cosa vede nel suo futuro Massimo Viglietti? Un omakase, pochi coperti, una cucina accessibile a tutti; percorsi brevi, incisivi e l’inizio di un sogno gastronomico per gli ospiti che ne godranno.

 

Assaggi e scatti vari dalla nostra cena alla tavola del ristorante Relais Le Jardin del Lord Byron, Roma

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