Il mondo di Genovese: Pecora & polenta, Finanziera in raviolo e altre delizie

Autorialità di Anthony Genovese, che non conosce confini. Il Pagliaccio caput mundi, perché c’è un filo conduttore sotteso, tra barbagiuan e dal, noodles e polenta, umeboshi e mole, carciofi alla barigoule e pecora, salsa bigarade e cardamomo, coriandolo e finanziera: l’assenza di frontiere geografiche e mentali, il no limits, che diventa presenza straripante di un artefice in grado di coniugare estro, tecnica ed esperienza. E impiatta un caleidoscopio di colori, profumi, influenze e nuances gustative che parrebbero stonati, ovvero fin troppo eterogenei, se a ricondurli a perfetta e completa concordanza (ineffabile armonia, insomma) non fosse la preponderanza della personalità creativa e stilistica di colui che li mette in fila uno dopo l’altro, anzi spesso uno insieme all’altro. Percorso netto, magistrale, senza alcuna sbavatura.

[[ima16]]Genovese non accosta Roma col Sudamerica, l’Italia con l’Oriente, la Francia con il Messico… Genovese – la sua cucina – è tutte queste cose insieme, ossia è/ha uno stile proprio, non a caso tra gli chef nostrani è quello che ha sfornato più allievi poiché rappresenta una scuola di pensiero gastronomico, magari troppo poco teorizzato, ma messo in pratica in modo magnifico. Non ci ha sorpreso, alla nostra ultima visita, l’eccellenza de Il Pagliaccio (che sia in versione classica o nel tavolo speciale Parallels, poco cambia: è differente la fruizione dell’esperienza, il contorno, mentre al palato le difformità son molto più sfumate, quasi assenti), già la conoscevamo, ne avevamo segnalato qui il ritorno alla sua foggia migliore. Semmai, ci ha colpiti una volta di più – e ancor più che nel passato – la melodiosa compresenza di elementi concettualmente distanti tra di loro, amalgamati in un unicum compiuto. Il contrario dell’essenzialità: qui c’è semmai la ricerca serena della sfumatura complessa. Esercizio difficile quanto il primo, perché poi si tratta in ogni caso di trovarvi una sintesi efficace.

[[ima17]][[ima18]]Genovese la raggiunge attraverso spigoli e carezze, rotondità e acidità, qua e là una dolcezza non pervasiva che lascia volentieri spazio ai graffi e alle intensità aromatiche stemperate da croccantezze e clorofille. Qualche ricordo giusto per esemplificare: assaggiamo Zabaione di ragusano, brodo di funghi, brioche con crema di funghi e lamelle di champignons e sul taccuino scriviamo “la cucina più raffinata d’Italia”, è una dismisura del momento, ma rende bene l’idea. Un gambero al lunapark stupisce per carnosità/carnalità estrema, anche se la testa fritta del crostaceo rimane un po’ troppo coriacea. Pecora, mole, melagrana (sella di pecora marinata in yogurt, lime, coriandolo, cumino e cannella, scottata e poi servita con salsa di pomodoro verde e coperta con insalata di erbe amare con mole, il tutto accompagnato da una polentina condita come una ceviche più germogli di mais, infine sorbetto di melograno e ribes e foglie di shiso rosso caramellate) è eccezionale, un piatto pazzesco che dimostra la capacità dello chef di determinare a suo piacimento la resa palatale dei suoi magheggi (con un appunto: il sorbetto rinfrescante finale è una cesura che non s’integra con l’assaggio, va separata). Anche i successivi Noodles, cassis e calamaro sono spettacolari, come condurre il cefalopode in un prato fiorito e in un frutteto. L’Anatra laccata, umeboshi è un capolavoro, pure qui note di fioritura, poi di tostatura, di caramello, di sottobosco… Poi arriva un cucchiaino con i fegatini d’anatra e umeboshi, amarezza e acidità quasi disturbanti, ma perché? «È una sberla per ravvivare le papille» spiega Genovese divertito. Sì, se la può permettere.

Al successo del tutto contribuisce il servizio di sala e un pairing così raffinato e studiato nei minimi particolari (chiedere a Matteo Zappile) da meritarsi presto un articolo a parte, che lo racconti.

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