Ha iniziato come pizzaiolo nelle Marche, ora è maître affermato a Bangkok: «Lavorare in sala è bellissimo»
«Ho lavorato anche con Massimo Bottura…». «Assunto! Inizi domani».
C’è un prima e un dopo nella vita di Sacha Di Silvestre, classe 1988, marchigiano di Spinetoli, più o meno a metà strada tra il mare di San Benedetto del Tronto e la bellezza di Ascoli Piceno. Il prima è la gavetta di un ragazzo gentile, sorridente, ardimentoso e appassionato, che a 13 anni bussò alla porta della pizzeria vicino a casa, la Mister Frog, offrendosi come aiuto pizzaiolo per l’estate («Volevo guadagnare qualcosa per comprarmi il motorino. Mi presero, ma avevo fatto male i calcoli, non riuscii a mettere insieme la somma necessaria. Papà s’impietosì e me lo regalò lui»). Il dopo – ossia l’oggi – vede Di Silvestre come co-protagonista in qualità di brillante maître di uno dei ristoranti più interessanti del mondo, il Potong di Bangkok, al numero 17 della 50Best asiatica (era al 35° posto nel 2023, sta crescendo di continuo), 57° in quella mondiale (era 88° nel 2023).
[[ima3]]Nel mondo del nascente fine dining a Bangkok, il marchigiano è una sorta di celebrità. «Quando sono atterrato qui, due anni fa, subito s’è sparsa la voce, tra gli addetti del settore: “È arrivato in città un italiano che ha lavorato da Bottura!”. Mi si sono aperte tante porte. Mi son messo a frequentare da cliente tutti i migliori indirizzi. Una sera decido di cenare da Potong, un indirizzo piuttosto nuovo (aveva aperto nel settembre 2021, ndr) di cui tutti mi parlavano bene: faccio per andarci, mi ritrovo sperso in un dedalo di viuzze anguste e scalcinate nel quartiere cinese, ho iniziato a pensare di aver sbagliato indirizzo». Non era in errore: s’incontra Potong all’improvviso, come una gemma finita tra gli scogli, è l’esito del meraviglioso recupero di un palazzo di cinque piani dove per 120 anni ha vissuto e lavorato la famiglia (farmacisti specializzati in fitoterapia, nell’ambito della medicina tradizionale cinese) della chef-patron Pichaya Soontornyanakij, più nota come chef Pam, alfiere della cucina “Progressive Thai-Chinese”, tutta da scoprire. «Non cercavano nuovi collaboratori, ma dissi che avevo lavorato nella Francescana Family… “Ok, allora inizi domani, se puoi”, mi risposero». “Domani” era il 31 dicembre 2022, cenone di Capodanno. «Pochi mesi prima stavo leggendo un libro di Tiziano Terzani, Un indovino mi disse. Per gioco, la mia fidanzata di allora mi fissò un consulto telefonico con un’indovina, che profetizzò: “Troverai un bel lavoro tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023”. Azzeccò in pieno, insomma», ride.
A Bangkok, Di Silvestre era arrivato da pochi mesi, nell’aprile 2022, rispolverando la propria formazione iniziale, quella da pizzaiolo: «C’era questo sudafricano con moglie thai che aveva aperto una pizzeria in città, vi ero stato a mangiare anni prima e mi aveva sorpreso una cosa, l’impasto era molto buono ma il topping un vero disastro. Eravamo rimasti in contatto, lui voleva aprire un nuovo locale e mi propose di fargli da consulente per qualche mese. Accettai. Mi occupavo di forniture, di gestione, gli ho fatto risparmiare qualcosa come l’equivalente di 80mila euro». Il progetto di Di Silvestre era però quello di tornare in sala, l’incontro con Potong è stato galeotto.
[[ima4]]Prima del trasferimento a Bangkok, lui aveva lavorato per quasi un anno come sommelier a Casa Maria Luigia, da Bottura. «Ci sono rimasto poco, solo 9 mesi, perché avevo una compagna ligure che voleva avvicinarsi a casa. Trovai lavoro alle Cantine Lunae Bosoni, tre giorni dopo io e lei ci lasciammo». La trasformazione da pizzaiolo a maître-sommelier era invece avvenuta anni prima a Londra: «Dopo il forno di Mister Frog a Spinetoli, andai nella capitale inglese, sempre come pizzaiolo. Un giorno nel locale dove lavoravo scoppiò un’emergenza in sala, “dacci una mano”. Andò bene, dopo qualche mese mi ritrovai assistant manager, quindi nel 2014 divenni sommelier in una steakhouse di livello, Gaucho, guadagnavo un sacco di soldi. Con la Brexit iniziai però a sentirmi un ospite indesiderato, andai dunque a lavorare a Zurigo, da Globus, un enorme shopping mall stile Harrods, ne curavo la cantina, vendevamo bottiglie di Petrus o di Solaia come fossero vinelli. Pensavo di avere chiuso con la ristorazione. Poi una ex-collega mi disse che da Bottura cercavano personale di sala, mandai un curriculum, ma senza troppe aspettative, ero convinto che avrebbero cestinato la candidatura». Invece…
«Quando ancora lavoravo in cucina, vedevo loro, gli uomini del servizio, belli, profumati, puliti, ben vestiti, che parlavano con clienti importanti, ottenevano mance sostanziose… Volevo cambiare tanto ruolo»
Di Silvestre ha recuperato così quella che è una sua vocazione. «Mi ha sempre affascinato il ruolo del maître, fin dall’inizio della mia carriera. Alla fine degli anni Novanta aveva un ruolo molto più centrale rispetto al giorno d’oggi, era l’anima del locale, mi sembrava una figura potentissima, necessariamente intelligente ed empatica perché deve rapportarsi con la clientela più variegata. Quando ancora lavoravo in cucina, vedevo loro, gli uomini del servizio, belli, profumati, puliti, ben vestiti, che parlavano con clienti importanti, ottenevano mance sostanziose… Volevo cambiare tanto ruolo». Eppure s’assiste a un’emergenza sala, non solo in Italia: «Non me lo spiego. O per meglio dire me lo spiego così: lavorare in cucina è popolare anche sul piccolo schermo, così attira talenti, mentre servire il cliente è visto come una diminutio. È una visione distorta, il lavoro di sala è bellissimo. Eppure si fa fatica a trovare personale, in Italia come anche qui a Bangkok: chef Pam è molto famosa, ha dei programmi tv sulla Rai locale, ma se ci arrivano 160 curriculum, 150 sono per la cucina e solo 10 per il servizio».
[[ima2]]Anche per questa ragione: cosa spinge Di Silvestre a rimanere a Bangkok? Una figura come la sua è appetita ovunque… «Se lavori bene, qui riesci a portare cose nuove. Il settore del fine dining è relativamente nuovo in Thailandia, in gran sviluppo, ci sono un sacco di soldi in giro: i canoni del servizio non sono ancora ben definiti; in Europa io sarei uno dei tanti, a Bangkok posso portare il mio contributo di idee nel costruire un modello nuovo. Per dire: qui quasi nessuno serviva i tavoli “a specchio” (ossia: i piatti in contemporanea per i commensali, ndr), io l’ho imposto al Potong, ora lo fanno tutti i locali di livello. Non dico che sia merito mio, ma certamente so di portare la mia conoscenza in un ambito che si va plasmando poco a poco. Poi, qui al ristorante abbiamo più o meno la stessa età, si collabora bene, ho carta bianca per quanto riguarda le mie competenze, mi sento coinvolto nel progetto». Non è l’unica motivazione, per un maître italiano in Thailandia: «Gli stipendi sono alti, il costo della vita bassissimo, per 10 km in taxi pago 3 euro, un pranzo tradizionale viene 2 euro. La mia abitazione è al 12° piano di un condominio lussuoso, con vista sulla città, ci sono piscina, bagno turco e sauna, quando piove il portinaio mi viene ad accogliere con l’ombrello. È un tenore di vita che non mi potrei mai permettere in Occidente». Ma prima o poi tornerà: «L’Asia è bella, però a livello di arte, cultura e bien vivre l’Italia non ha paragoni. Bangkok non ha una piazza né un centro storico, non ci puoi passeggiare perché fa sempre molto caldo… Insomma, mi trovo bene, ma non mi sento a casa».
[[ima5]][[ima6]][[ima7]][[ima8]]In questa realtà in chiaroscuro, Potong è un’isola di bellezza, eleganza e ovviamente bontà. Come spiega Di Silvestre, ci s’innamora innanzitutto del posto. Chef Pam vi propone questa cucina “Progressive Thai-Chinese” che è figlia di un fenomeno che risale i secoli, famiglie della buona borghesia cinese che emigrarono in Thailandia, acquistandovi posizioni di prestigio, facendo studiare i propri figli nelle migliori università. È la storia della stessa Pam.
[[ima9]]Alla sua tavola si gustano piatti che riprendono questa fusione ormai entrata nella storia e ne offrono una visione contemporanea, prelibata, eccezionalmente a fuoco: la sua versione dell’anatra è ormai famosa (ne abbiamo già parlato qui), una squisitezza, «un piatto incredibile, vai fuori di testa. È una combinazione jummy, dalla ricetta cinese prende la bella pelle croccante, da una versione più europea la succosità della carne. La chef combina le due tecniche, nessuno la propone così, anche i cinesi che vengono a gustarla rimangono sorpresi», dice Di Silvestre. È il piatto signature: ci sono i petti d’anatra sontuosi e dalla pelle croccante (il volatile viene marinato in cinque spezie e sale, poi immerso in acqua bollente e glassato con salsa di soia e glucosio liquido; appeso in camera di maturazione per 14 giorni finché la pelle non diventa molto secca. Al momento del servizio, è passato in forno a 200/250°C per circa 15 minuti. Infine, i cuochi attendono altri 15 minuti prima del taglio), il cervello di anatra arrosto impastato con spezie e senape, le rifilature diventano una sorta di prelibata salsiccia a parallelepipedo sormontato dalla stessa pelle croccante, le cosce sono accompagnate da una crema di fagioli neri e peperoncino, poi insalata di cavolo cinese stufato con le sue foglie croccanti, cavolo sottaceto e tre salse (olio al chili, salsa al ginger e salsa bbq).
[[ima10]][[ima11]][[ima12]]Piatto strepitoso. Ma interessantissimi anche i salumi cinesi d’assaggio iniziale, un prosciutto stile Xuanwei, ossia un crudo tipico dello Yunnan, e poi due salsicce a diverse marinature (le marinature cinesi si caratterizzano per la presenza, oltre al sale, anche dello zucchero). O la successiva quadrilogia dedicata alla banana (Polpa di banana con fegato di pollo; Fiore di banana con garum di pesce e aneto; Stelo di banana con arachidi e lime; Brodo di buccia di banana).
[[ima13]]Oppure, ancora, il classico pad thai si trasforma in un gambero carabinero con ravanello sottaceto e tamarindo, sormontato al centro da una sorta di guscio croccante alle spezie che riprende le nuances del pad thai e viene coperto da un velo di noodles di riso colorato a strisce (con succo di barbabietola e tè blu, quello ricavato dai fiori di Clitoria ternatea, il butterfly pea flower) a riprodurre la bandiera thailandese. O il mikan-dai, orata rossa cinese, con nero di seppia, porro croccante e kapi, sorta di tradizionalissima pasta di gamberetti e krill, dunque ingredienti thai che sposano la tecnica cinese della fermentazione.
[[ima14]]A questo proposito, Di Silvestre ci racconta: «Ci abbiam messo due mesi a capire il pairing perfetto per questo piatto», alla fine la scelta è caduta su un Chambolle Musigny. Ma, per chiudere proprio con l’abbinamento: due opzioni, quella più classica, la Sommelier Selection dove dominano Francia e Italia; e poi «una versione più divertente, sei calici da sei Stati diversi. Solo vini naturali che provengono da 24 nazioni enologiche». Noi non abbiamo avuti dubbi.