La storia delle olive ascolane, simbolo dello street-food marchigiano

     

    Una croccante sfera dorata, il cui nucleo è costituito da una saporita oliva rivestita da un involucro di carne e odori. È l’oliva ascolana, piatto tipico dello street-food marchigiano che non può mancare durante gli aperitivi o sulle tavole nei giorni di festa. Ma lo sapete che, prima di essere un finger food davvero sfizioso (e diventato famoso in tutto il mondo), è una varietà di oliva? Come si è arrivati allora a farcire e friggere queste piccole bontà? Scopriamo la storia e l’origine della ricetta delle olive ascolane!

    La ricetta delle olive ascolane, tra storia e leggenda

    Come anticipato, l’oliva ascolana è in realtà una varietà di oliva molto particolare che ha ottenuto la certificazione DOP. La denominazione “oliva ascolana tenera del Piceno DOP” si riferisce infatti all’oliva verde da tavola, in salamoia o panata e ripiena, frutto della varietà d’olivo Ascolana Tenera. Cosa la contraddistingue? Polpa croccante, nocciolo più piccolo rispetto alla media e che si separa facilmente, gusto tenero e leggero retrogusto amarognolo: queste le caratteristiche! Un prodotto che affonda le sue radici nel suo territorio, le Marche, e che ha trovato il suo accompagnamento perfetto con un ripieno di carne e una panatura croccante. Ma per scoprire l’origine di questa specialità tipica dobbiamo tornare indietro di molti secoli. Pronti?

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    Le antenate delle olive ascolane

    La storia delle olive ascolane comincia nell’antica Roma, dove le antenate olive in salamoia rappresentavano, in virtù del loro apporto nutritivo, il pasto quotidiano dei legionari romani. Oltre alla loro bontà, la loro forma e la comoda trasportabilità, le rese un alimento ideale durante i lunghi viaggi. Il nome latino colymbades, che deriva dal greco κολυμβάω (colymbáo, “nuotare”) si riferisce al metodo di conservazione usato all’epoca, secondo il quale le olive venivano sottoposte a diversi lavaggi e, successivamente, conservate in salamoia.

    In epoca romana sono molteplici gli autori che scrissero della bontà di questo piatto, tra questi Catone, Varrone, Marziale e Petronio che, nel Satyricon, le colloca sulle famose tavolate di Trimalcione. E gli estimatori delle olive marchigiane non si fermano di certo quì: durante il XVI secolo anche Papa Sisto V riconosce la loro prelibatezza in una lettera inviata agli Anziani di Ascoli. Mentre Garibaldi, dopo averle assaggiate e apprezzate il 25 gennaio del 1849 ad Ascoli, decise di coltivare alcune piantine di olivo a Caprera, così da poter riprodurre la ricetta delle olive ripiene da sé. 

    L’origine del ripieno

    Le prime notizie circa la farcitura dell’oliva ascolana risalgono ai  1600  periodo  in  cui  queste, una  volta denocciolate, venivano riempite  di  erbe e chiamate “olive  giudee” (pare che il nome fosse dovuto al fatto che fossero “senz’anima”). Ma per quanto riguarda la storia delle olive ascolane così come le conosciamo oggi, dobbiamo spostarci ancora di qualche secolo, per la precisione nel 1800.

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    Si dice, infatti, che fu proprio in questo periodo che i cuochi a servizio delle famiglie nobili ascolane inventarono il caratteristico ripieno delle olive. Come si legge nel disciplinare, infatti, “la  tradizione  popolare  ritiene  che l’origine dell’oliva farcita  e  fritta  sia  stata  un’esigenza  di  recupero delle carni assortite  dei  banchetti e dei pranzi che si tenevano nelle famiglie abbienti. La ricetta originaria della farcitura si può far risalire a un periodo intorno alla costituzione del Regno d’Italia (1859/61)”.

    A quanto pare l’idea di un ripieno di carne parte dall’esigenza di tali cuochi di consumare le notevoli quantità e varietà di carni che avevano a disposizione. All’epoca, infatti, non esistevano ancora degli strumenti per la conservazione dei cibi e uno dei mezzi per non sprecare gli alimenti era proprio quello di riutilizzarli per ricette diverse. 

    La commercializzazione delle olive

    Una perfetta ricetta anti-spreco e legata soprattutto alle grandi occasioni. Nel tempo, infatti, la realizzazione delle olive ascolane era riservata a momenti speciali, come la mietitura, il Natale, la Pasqua o i banchetti dei matrimoni. Com’è avvenuto quindi il passaggio da prodotto “privilegiato” e per pochi a finger food apprezzato a livello mondiale? 

    La produzione delle olive ascolane a livello industriale cominciò nel 1875, quanto l’ingegnere ascolano Mariano Mazzocchi diede il via alla commercializzazione e alla conseguente notorietà del prodotto marchigiano.

    Come si preparano le olive ascolane ripiene?

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    Arriviamo al capitolo “succulento”. Secondo il disciplinare, la denominazione Oliva Ascolana  del  Piceno ripiena deve essere prodotta secondo modalità precise, e il prodotto finito deve contenere almeno il 40% in peso di oliva denocciolata. Le carni selezionate per il ripieno devono essere: carne bovina (40-70%) e carne suina (30-50%), mentre è consentita carne di pollo e/o tacchino per un massimo del 10%.

    Come si preparano? Si procede tagliando in pezzi le carni, che vengono rosolate insieme a cipolla, carota e sedano, in olio extravergine d’oliva e/o strutto (altrimenti, è consentito anche l’uso del butto). Il tutto viene cotto a fuoco lento con vino bianco secco e sale. Terminata la fase di cottura, la carne viene triturata insieme agli ingredienti aggiuntivi, ossia noce moscata, uova (2-4 per kg di impasto) e formaggio stagionato grattugiato (non più di 100 g per kg di impasto). A questo punto si arriva alla fase delicata: le olive – preventivamente denocciolate – vengono farcite con questo impasto, poi passate nella farina, nell’uovo sbattuto e nel pangrattato. Infine, vengono fritte!

    Se volete provare a farle a casa, non vi resta che scoprire la ricetta delle olive ascolane che ci ha fornito Nonna Emidia dell’azienda familiare di Stefano Gregori, che ha lottato per ottenere la DOP nel 2005, indispensabile per tutelare un prodotto che negli anni ha subito moltissime falsificazioni.

    Conoscevate la storia delle olive ascolane? E a voi piacciono? 

     

    Articolo scritto con il contributo di Deborah Ascolese.

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