5 colture antiche “resistenti” alla crisi climatica che potrebbero sfamare il mondo
Avete presente Interstellar di Christopher Nolan? Il regista immagina un mondo in cui ciò che resta delle coltivazioni umane è soltanto il mais, facendo però intendere che anche questo sarà destinato a diventare improduttivo. Uno scenario apocalittico all’interno di film di fantascienza, certo, ma che non è troppo lontano dalla realtà. Attualmente, riso, grano e, ovviamente, mais forniscono da soli oltre la metà delle calorie mondiali. Questa dipendenza da un numero così ridotto di colture le ha rese però più vulnerabili ad attacchi di parassiti, alle malattie, all’erosione del suolo e agli effetti della crisi climatica in corso, mettendo a rischio la sicurezza alimentare.
Investire sulla biodiversità è la chiave per il futuro. Un interessante approfondimento del quotidiano inglese The Guardian ha indagato proprio questo tema, andando a vedere quali colture “antiche” potrebbero rivelarsi più resistenti di fronte alla siccità o alle epidemie, offrendo anche importanti nutrienti. Ecco quindi cinque raccolti che gli agricoltori di tutto il mondo stanno coltivando “nella speranza di nutrire il pianeta mentre si riscalda”.
Riso, grano e mais: i problemi delle monoculture e della perdita di biodiversità
Senza biodiversità non può esserci vita. Non solo quella di tutte le specie animali e vegetali esistenti, ma anche quella dell’uomo. Abbiamo visto, infatti, come il mantenimento della biodiversità sia fondamentale per la sicurezza alimentare di larga parte della popolazione mondiale, che dipende dalla sopravvivenza di moltissime specie selvatiche. Pare che siano oltre seimila le specie di piante diverse che gli umani hanno coltivato nel corso della storia.
Adesso, però, le cose sono cambiate: negli ultimi settant’anni, tre quarti dell’agrobiodiversità che i contadini avevano selezionato nei 10.000 anni precedenti, e il 75% delle colture agrarie presenti a inizio ’900 è scomparso. Oggi solo 150 sono coltivate a livello significativo in tutto il mondo, e tre specie – mais, riso, grano – forniscono oltre la metà delle calorie necessarie a sfamarci. Le motivazioni di questa perdita sono tante, ma soprattutto il sistema alimentare mondiale. In particolare, la necessità di fornire cibo “a basso costo” per una popolazione mondiale in costante crescita e l’agricoltura intensiva che degradano suolo ed ecosistemi, come sottolinea il rapporto Food system impacts on biodiversity loss, pubblicato dal centro studi britannico Chatham House con la collaborazione del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) e Compassion in World Farming, una delle più grandi organizzazioni internazionali per il benessere animale.
Come abbiamo sottolineato altre volte, l’agricoltura è sia vittima che carnefice dei cambiamenti climatici, contribuendo in maniera importante alle emissioni di gas serra.
5 piante “resistenti” al cambiamento climatico
Come provare a invertire la rotta? Secondo gli esperti, è ora di riscoprire altre possibilità. In particolare, puntando su cinque colture “antiche” che sono maggiormente in grado di adattarsi alla crisi climatica in corso e, allo stesso tempo, che possono comunque fornire importanti nutrienti. Ma quali sono? Alcune probabilmente le conoscerete, altre (forse) non le avrete mai sentite nominare… scopriamole tutte e conosciamole meglio!
Amaranto
Gli esperti l’hanno definita come “la pianta che è sopravvissuta alla colonizzazione”. E in effetti, sono stati proprio Aztechi, Inca e Maya i primi a scoprire le potenzialità dei semi dell’amaranto (uno pseudo-cereale come il grano saraceno o la quinoa). Quando i colonizzatori europei arrivarono nelle Americhe, vietarono alle popolazioni di coltivare questa pianta, che però ha continuato a crescere spontanea, come erbaccia. Molti agricoltori ne hanno poi conservato i semi e li hanno tramandati per generazioni, fino a quando ai loro discendenti è stato permesso di coltivarla di nuovo.
Dell’amaranto non sono commestibili solo i semi ma tutta la pianta: infatti, in Africa e in Asia è stata a lungo consumata come verdura, facendo saltare le foglie in padella. Si tratta quindi di una pianta estremamente versatile e dalle notevoli caratteristiche nutrizionali: l’amaranto infatti, come abbiamo raccontato nel nostro approfondimento, è privo di glutine e ha un buon contenuto di fibre, proteine, ferro e acidi fenolici e si presta a tantissime ricette, specialmente per regimi alimentari vegetariani o vegani.
Ma non solo, perché risulta particolarmente resistente alla siccità, ed è per questo che sta vivendo una rinascita grazie agli agricoltori indigeni in Guatemala, Messico e Stati Uniti che stanno collaborando per coltivarla e darle nuova vita, mentre in Europa viene coltivata in Ucraina, il più grande produttore del raccolto nel continente.
Fonio
Tutto ciò che è nuovo oggi, in realtà, era vecchio una volta. Questo detto potrebbe valere anche per il fonio, un cereale senza glutine originario dell’Africa occidentale, in particolare di Mali, Senegal e Burkina Faso. Qui viene coltivato da migliaia di anni, al punto da essere considerato il cereale più antico dell’Africa e il cibo di capi e re: tradizionalmente, era servito nei giorni festivi e nelle occasioni speciali, come ai matrimoni e durante il Ramadan.
Ma perché gli esperti consigliano di riscoprire questa specie? L’attenzione va ai notevoli aspetti nutrizionali e sulla sua estrema resistenza alla siccità: innanzitutto, si tratta di un cereale a basso indice glicemico e senza glutine, elementi che lo rendono una buona fonte di aminoacidi per le persone con diabete o celiache. Inoltre, può dare tre raccolti all’anno anche in terreni aridi e poveri, e si tratta di una pianta che, grazie alle radici profonde, aiuta a contrastare l’erosione del suolo, con evidenti vantaggi per le zone colpite dalla scarsità d’acqua.
Fagioli dall’occhio
“Dei fagioli non si butta via niente”: era così il detto? Nella ricerca di colture alternative per il nostro futuro, secondo gli esperti era importante identificare quelle in cui l’intera pianta fosse commestibile. E questo vale anche per i fagioli dall’occhio: nonostante storicamente si siano sempre mangiati i semi, in realtà anche le foglie e i baccelli sono commestibili e rappresentano una buona fonte di proteine. Inoltre, come per l’amaranto e il fonio, questa pianta è altamente resistente alla siccità: non richiede eccessive cure e può essere bagnata raramente. In America Latina si sta studiando l’introduzione dei fagioli dall’occhio in alternativa ad altre varietà più comuni, come i fagioli borlotti e neri, che potrebbero presto diventare più difficili da coltivare.
Ma da dove arriva questa pianta? Sempre dall’Africa occidentale, dove costituisce una fonte nutritiva ed economica importante. La produzione nel corso dei decenni si è però drasticamente ridotta, e la maggior parte dei fagioli provengono dalla Nigeria, che costituisce oggi il più grande produttore mondiale.
Taro
Cambiamo totalmente genere: avete mai sentito parlare del taro? Dall’Africa ci spostiamo ai tropici del sud-est asiatico e della Polinesia, dove il taro è stato a lungo coltivato come ortaggio a radice. Nella forma ricorda un po’ la patata di dimensioni più ridotte, con una ruvida buccia marrone e la polpa bianca. Come per le altre piante, vale quanto detto: se ne può mangiare sia il tubero che le grandi foglie, di solito proposte stufate.
C’è un “ma”: l’aumento delle temperature sta minacciando questa coltivazione nel suo habitat naturale. È per questo che gli Stati Uniti stanno cercando di introdurla, adattandola però a crescere come pianta annuale temperata, in quanto non potrebbe sopravvivere al freddo degli inverni statunitensi. Un lavoro che sta portando avanti l’Utopian Seed Project nella Carolina del Nord, che punta alla ricerca di modi per aiutare le piante tropicali a sopravvivere all’inverno: ad oggi, sono otto le varietà di taro che si stanno coltivando, comprese quelle provenienti da Corea, Filippine, Hawaii, Cina e Porto Rico. Il progetto si impegna inoltre a insegnare alle persone come cucinarlo e introdurlo nella propria dieta.
Kernza
Questo, molto probabilmente, non l’avete mai sentito nominare. Perché, se per le altre piante si tratta di colture che sono note da migliaia di anni e che si stanno riscoprendo ora, il kernza è invece stato coltivato specificatamente per resistere ai cambiamenti climatici. Si tratta di un’erba simile al grano – chiamata “erba di grano intermedia” – che è stata identificata negli anni ‘80 dai ricercatori del Rodale Institute con sede in Pennsylvania. Quali sarebbero i vantaggi? Si tratta di una coltura cerealicola perenne, che potrebbe rappresentare un ottimo sostituto ai cereali annuali come il grano, riducendo al minimo il suo impatto ambientale. Infatti, non deve essere ripiantata ogni anno, e inoltre le sue radici profonde aiutano a contrastare l’erosione del terreno, migliorandone anche la struttura, e assorbono il carbonio dannoso dall’aria e lo “intrappolano” nel sottosuolo, contribuendo alla lotta contro la crisi climatica.
È bene specificare però che si tratta di un marchio registrato, un po’ come accaduto con il Kamut: Kernza®, infatti, è stato introdotto dal Land Institute, con sede in Kansas, un’organizzazione di ricerca senza scopo di lucro focalizzata sull’agricoltura sostenibile che da anni è impegnata nello sviluppo e nel miglioramento della resilienza di questa pianta. Per il momento, la si sta coltivando in Minnesota, Kansas e Montana con notevoli vantaggi rispetto al grano. E anche dal punto di vista del profilo nutritivo si riscontrano elementi interessanti: è ricco di proteine e antiossidanti e ha otto volte la quantità di fibre insolubili del grano.
Fonti:
theguardian.com
chathamhouse.org
fao.org
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